sabato 11 ottobre 2008

Milano, convivenza e futuro

Preoccupati per il clima di crescente intolleranza verso gli stranieri, i rom e tutte le persone più deboli, i giovani italiani e stranieri di seconda generazione di Genti di Pace-j hanno organizzato un'assemblea l'11/10/08

Nei commenti pubblichiamo gli interventi introduttivi e il dibattito che è seguito.

Stefano Pasta (Comunità di Sant'Egidio-Segreteria Genti di Pace-j):
il clima di intolleranza a Milano
Lin Jianyi (Associna - Segreteria Genti di Pace-j):
la criminalizzazione dello straniero
Abderrezak Zouhari (Comitato Giovanile Islamico in Italia - Segreteria Genti di Pace-j): una storia di integrazione

(Nei commenti trovi gli interventi integrali... continua a leggere)

8 commenti:

redazione ha detto...

STEFANO PASTA
Comunità di Sant'Egidio-Segreteria Genti di Pace-j)

IL CLIMA DI INTOLLERANZA A MILANO

Benvenuti! E’ bello vedere qui oggi il volto di tanti amici: volti diversi, storie diverse, ma una grande amicizia che ci lega. E’ il volto di GdP-j. Sì, veniamo tutti da realtà diverse ma siamo accomunati dal credere nella convivenza. Questo è Genti di Pace-j, una rete di opinione formata da giovani appartenenti a differenti realtà che si sono uniti per promuovere la convivenza, la pace, il dialogo, la solidarietà e la giustizia.
Siamo in tanti oggi perché non vogliamo rimanere indifferenti al clima di ostilità e intolleranza verso gli stranieri, i rom e tutte le persone più deboli. Noi di Gdp-j sentiamo che anche l’indifferenza in questo momento è una violenza. Abbiamo voluto trovarci presto per riflettere insieme e dare un messaggio nuovo a Milano che guardi al futuro. Per questo, abbiamo voluto quest’assemblea per dare spazio alla voce di tutti.

Il 14 settembre scorso a Milano è stato ucciso un ragazzo di 19 anni, Abdul. Abdul era un cittadino italiano, ucciso per il colore della pelle che tradiva le sue origini africane. La sua morte ci ha colpito. Siamo stati al suo funerale. Molti hanno detto: non si tratta di razzismo, ma di banale violenza urbana. Come se la violenza sia normale nella città.
Noi sentiamo che questo gesto irresponsabile è anche frutto di un clima. Un clima brutto in cui tanti si sentono minacciati, assediati, invasi. E’ l’idea del nemico individuato nell’altro. Sì, il nemico può prendere anche il volto di Abdul, un ragazzo come noi, figlio di un operaio da vent’anni in Italia, cittadino italiano, che ha fatto tutte le scuole a Milano e si sentiva milanese.
I numerosi episodi di violenza seguiti all’omicidio di Abdul dimostrano come l’ostilità verso gli stranieri non sia un fenomeno occasionale ma diffuso. Il coinvolgimento di pubblici ufficiali in alcuni episodi gravi di discriminazione parla di una realtà a tratti fuori controllo. Penso alle violenze subite da Emanuel a Parma e al papà senegalese arrestato e messo a terra dai vigili mentre accompagnava il suo bambino alla scuola elementare di via Mantenga qui a Milano. Tutto per un’auto parcheggiata in divieto di sosta.
C’è un altro caso che vorrei ricordare: è la morte di Marian nel rogo che il 23-4 settembre ha devastato l’area delle vecchie Falck di Sesto San Giovanni. Marian aveva solo 14 anni, era di Costanza e viveva in Italia con alcuni parenti. Era uno dei tanti ragazzini rumeni che elemosinano per strada. Dormiva quando una candela ha dato fuoco ad alcuni stracci. Stordito dal fumo non è riuscito a scappare. La sua avventura a Milano finisce così, con una morte prematura e ingiusta in solitudine all’età di 14 anni.
La città di Milano sta cambiando: palazzi, uffici e parchi prenderanno il posto delle aree dismesse. Il grande progetto dell’EXPO 2015 prevede 4 miliardi di spesa. Ma la città che cresce non riesce ad accogliere i più deboli. Li costringe ai margini, li espelle. Davanti alla morte di un bambino zingaro è facile girarsi dall’altra parte. I rom non sono amati lo sappiamo. Il loro stile di vita, il loro vivere talvolta ai margini della legalità, la loro pressante richiesta di aiuto infastidisce e ricorda che nel mondo c’è ancora tanta povertà. E’ facile tenere gli occhi bassi, fare finta di niente, voltare lo sguardo. Ma l’indifferenza è il terreno in cui germoglia il razzismo e la violenza. Se nessuno dice niente allora tutto è permesso. Il terribile finale della vita di Marian sono state le scritte apparse sui muri della fabbrica dove viveva: “Rumeni di merda bruciate tutti!”.
Perché nessuno ha mostrato pietà e rispetto per questa morte? Forse perché si trattava di uno zingaro. Ma non solo. La realtà è che non si sa più partecipare alla vita degli altri e ai loro dolori. Non si sa nemmeno vivere un momento di lutto, presi dalle proprie cose, dall’imbarazzo e dall’impotenza.

Da tempo a Milano e nel nostro paese viviamo un clima sociale segnato da una logica securitaria. La continua invocazione di sicurezza diventa ostilità e disprezzo verso i più deboli: i clandestini, i mendicanti, i poveri. L’insegnamento del disprezzo sta scavando un solco profondo nella città, divide le persone, le rende sempre più sole e aggressive. Il disprezzo passa nelle parole e nei gesti, s’insinua nei pensieri e nel cuore, è come un veleno che finisce per inquinare la vita, i rapporti tra la gente, fino a indebolire la convivenza. Il risultato, lo abbiamo visto, è stata un’escalation di violenza nelle nostre città che ha reso tutti meno sicuri.
La domanda di sicurezza ha portato alla criminalizzazione dei poveri e alla militarizzazione delle città. La politica del capro espiatorio è stata una risposta facile e rassicurante ma molto pericolosa. Perché quando si addita il nemico, si arma anche la mano del giustiziere. Chiunque può sentirsi in dovere di eliminare la minaccia della società. Sembra che i problemi maggiori di Milano siano i carrellini dei negozianti cinesi, i musulmani che pregano, i poveracci che fanno scappare i turisti dal centro e i clienti dai negozi. Bisognerebbe parlare piuttosto della carenza di solidarietà, del venir meno di un tessuto sociale in un contesto in cui le situazioni di disagio, di povertà, di marginalità, crescono. In questo tempo di crisi economica e sociale sentiamo che il vero senso di insicurezza è sul futuro: il futuro appare minaccioso. Noi di Gdp-j crediamo che il nostro futuro però non sia la lotta tra etnie, tra culture, tra religioni, ma sia la globalizzazione dell’amicizia. In un periodo in cui si chiudono le porte, si alzano i muri, si rinserrano le frontiere sentiamo tutti l’urgenza di sostenere la convivenza contro ogni divisione. Per questo siamo qui oggi e ringrazio tutti di essere venuti.

CONCLUSIONI:

Grazie a tutte le persone che sono intervenute. Vi ringraziamo perché abbiamo sentito un forte invito a non essere indifferenti di fronte al clima che si respira a Milano e in Italia ma anche a non cedere al pessimismo. Sentiamo il bisogno di essere persone libere dalla paura e capaci di essere contagiosi nel parlare, nell’incontrare gli altri, nel vivere una solidarietà concreta. In tempi disumani, c’è bisogno di essere tutti più umani. E l’umanità è l’unica risposta efficace a questo clima: penso, in particolare, ad alcuni bambini rom rumeni che abbiamo inserito a settembre in una scuola della periferia. Dopo solo un giorno dall’inserimento, un gruppo di genitori ha protestato con la preside perché la scuola aveva accettato questi bambini; anche le maestre erano terrorizzate all’idea di avere alunni rom. Proprio ieri ho parlato con la preside: dopo solo un mese di scuola, i bambini sono diventati amici dei compagni italiani e gli insegnanti, conosciute le storie di questi bambini, si sono affezionati a loro.
Noi oggi siamo un’immagine del convivere. Per noi è scontato e naturale essere amici anche se diversi ma sappiamo purtroppo che non è per tutti così! Noi vogliamo dire invece alla città che la convivenza è possibile. Per questo sarebbe bello pensare a un momento pubblico e aperto a tutti in cui affermare con forza questo. Ma più di tutto mostrare il volto di GdP-j perché l’amicizia tra di noi è un’immagine che parla più di 1000 discorsi.

redazione ha detto...

LIN JIANYI
Associna-Segretria Genti di Pace-j):

LA CRIMINALIZZAZIONE DELLO STRANIERO

Per quello che riguarda la morte di Abdul noi (figli di cittadini stranieri nati in Italia o che hanno fatto le scuole qui) ci siamo subito identificati con lui. Anche lui era infatti un esponente della seconda generazione di stranieri nel senso che condivideva in tutto e per tutto i modi di vivere dei suoi amici italiani, l’unica cosa che tradiva il suo non essere italiano era il colore della pelle.
Io preferisco al termine seconda generazione quello di nuovi italiani, spesso si fa fatica ad usare, soprattutto per quello che riguarda la stampa la parola italiano per identificare una persona di colore, nera, gialla etc. (i cui tratti somatici tradiscono un origine straniera). Queste persone mangiano e vivono esattamente come gli italiani hanno però un grosso problema che è quello legato ai diritti.

Ad esempio, hanno difficoltà nell’ottenere la cittadinanza: in Italia vive infatti lo ius sangunis per cui la cittadinanza non è dovuta al fatto di nascere in territorio italiano, ma dal fatto di appartenere ad una famiglia italiana. Chi dunque nasce sul suolo italiano non ha diritto automaticamente alla cittadinanza, ma deve richiederla al compimento del diciottesimo anno di età. La legge italiana è fra l’altro particolarmente restrittiva perché se non richiedi la cittadinanza entro il diciottesimo anno di età non puoi più richiederla in virtù del fatto che sei nato sul territorio quindi bisogna stare attenti a chiedere la cittadinanza entro il diciottesimo anno. C’è un altro problema relativo a questa legge sulla cittadinanza che è l’obbligo di risiedere in Italia in modo continuativo, chi si sposta anche per pochi mesi, magari per seguire i genitori che hanno trovato lavoro per un breve periodo all’estero si vede negata la cittadinanza, magari perché è stato all’estero meno di sei mesi. Parlavo con il mio amico Roberto Hu, lui è nato a Firenze, ha anche un perfetto accento toscano, ed era arrabbiatissimo perché lui aveva studiato qua e tutto poi a sedici anni è andato in Ungheria perché i suoi genitori avevano trovato lavoro lì , avevano una ditta di import-export lavoravano anche con l’Ungheria e ci erano andati per sei mesi è anche andato qui vicino…
Quando è tornato in Italia è andato in comune si è fatto la solita trafila fra comune e questore, la solita burocrazia italiana ed alla fin della fiera non è riuscito ad avere la cittadinanza perché aveva rotto la residenza.
Il vero problema legato al diritto di cittadinanza è l’identità di queste persone. Infatti spesso l’istruzione porta alla formazione della personalità: questi nuovi italiani che sono cresciuti in Italia si sentono completamente italiani, ma si sentono non accettati dalla società ed in particolar modo non si sentono tutelati dalle leggi. Quando sentono l’opinione dei giornali, che poi è quella che forma l’opinione pubblica si dicono che quest’immagine deturpata non è un ritratto veritiero degli stranieri in generale e delle seconde generazioni in particolare.

Un altro problema che ci tengo a mettere in evidenza, soprattutto per chi non sa quali sono i problemi con cui deve confrontarsi lo straniero qui in italia è il permesso di soggiorno.
Vi racconto un caso che mi è capitato e che penso sia abbastanza tipico: ho fatto la richiesta per il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di studio ad ottobre mi hanno mandato un sms sul cellulare dicendomi vieni alla questura il 15 Luglio 2008 . Cioè 7 mesi dopo.Ho portato anche il documento che mancava che era il tesserino sanitario: anche questo è un caso di mala burocrazia. Infatti quand’era scaduto mi hanno chiesto il permesso di soggiorno per rinnovarlo, ma io per rinnovare il permesso di soggiorno avevo bisogno del tesserino sanitario ! Allora mi hanno fatto un rinnovo per sei mesi, sei mesi dopo era maggio io avevo l’appuntamento con la questura il 15 Luglio cosa gli portavo!? Così sono dovuto tornare di nuovo a farmelo rinnovare per altri sei mesi.
A Luglio quando sono andato in questura per il rinnovo del permesso mi hanno preso le impronte digitali…. Sapete sono pericoloso, no ..? Sono stato eguagliato veramente ad un criminale. Tra l’altro me le hanno prese in questa stanza dove da una parte c’era un gruppo che prendeva solo le impronte digitali dall’altra persone che addirittura facevano tutto il palmo e dunque anche la lunghezza delle dita, sapete che sono dati biometrici anche quelli.
Quando gli ho dato tutto quello che mi era richiesto mi hanno detto : “Bene ci vuole un anno” allora io li ho detto “beh io ho fatto la richiesta ad ottobre quindi l’anno scadrà fra pochi mesi” “No ci vogliono ancora sei mesi”. Va beh ottobre era luglio ancora sei mesi non faceva proprio un anno comunque li ho detto : “Allora mi manderete a casa un avviso…” e loro “No ti mandiamo un sms sul cellulare” . Ormai si sono tecnologicizzati anche loro e va beh … io ho ripetuto “ Ma l’sms, magari il cellulare non va” e loro “no ti manderemo un sms”.

Facevo l’esempio delle impronte per far vedere come gli stranieri vengano equiparati ai criminali.
Anche se io fossi un clandestino, adesso va di moda questa parola io preferisco irregolare, sans papier, ormai si usa solo clandestino che ti da l’idea di quelli che arrivano sulle barche e vengono acciuffati, non sarei un criminale.
Tra l’altro io sono stato anche clandestino, mi è scaduto il permesso di soggiorno il 22 ottobre per una stranissima coincidenza era anche lo stesso giorno della mia laurea , mi sono laureato che ero ancora regolare il giorno dopo era clandestino. Ero uno dei pochi clandestini laureati in italia e per molti ero anche un criminale , però con la laurea.
Il giorno dopo , visto che i kit che distribuiscono nelle poste per il rinnovo del permesso di soggiorno vanno via come il pane, sono andato a cercarlo altrove mi hanno detto di tornare il giorno dopo quindi sono stato per tre giorni senza il permesso di soggiorno.
Il clandestino fra l’altro non è un criminale è uno che non ha un permesso di soggiorno. Io lo sono stato veramente, io sono arrivato in Italia da clandestino e se non ci fosse stato il decreto di sanatoria che si usava in quegli anni la mia situazione sarebbe probabilmente tuttora irregolare e chissà, forse, a quest’ora sì che sarei veramente a rubare, spacciare, uccidere. Secondo me regolarizzare chi è clandestino e può ed è in grado di meritarselo il permesso di soggiorno, sarebbe un buon compromesso. Per chi può meritarselo il permesso di soggiorno è un mezzo di integrazione nella società. Un clandestino non è uno che per forza spaccia e uccide, un clandestino ha anche una sua umanità, è spesso uno che si trova a fare lavori più difficili ( basta pensare agli stagionali) sottopagati senza le condizioni, medico, igieniche, assicurative e di contratto ( le vacanze i permessi etc.). In realtà quando fa comodo si accetta anche il clandestino e quando invece accadono quelle cose che i media presentano a tutti come atroci delitti, scatta la repulsione e si fa di quell’episodio un caso.

Le seconde generazioni sono numerose, ormai i ragazzi nati in italia da genitori stranieri sono quasi un milione , ora mai sono una parte veramente consistente , io punterei molto su di loro perché possono fare veramente da ponte fra gli italiani, i genitori e gli immigrati in generale. Mi rivolgo soprattutto a chi qui è una seconda generazione: siamo arrivati ad un punto in cui veramente possiamo fare noi la differenza perché al di là delle situazioni in cui siamo richiamati a dare il nostro messaggio, dalle istituzioni e dai media dobbiamo organizzarci e far sentire la nostra voce prima che gli altri ci diano il microfono. Dobbiamo costruire insieme qualcosa fra le seconde generazioni perché abbiamo le leve, le competenze per poter cambiare questa situazione.
Situazione che tra l’altro è paradossale perché, noi sappiamo benissimo, che i dati che emergono da coloro che si occupano di immigrazione ( soprattutto il terzo settore) sono diversi da quelli che ci vengono propinati tutti i giorni sui giornali.
Non è un caso che all’ultimo rapporto ISMU alla fine della discussione il moderatore diceva dopo quattro o cinque ore di discussione non abbiamo ancora utilizzato la parola problema. Parliamo degli immigrati come risorsa, come opportunità, ma mai come problema.

Sui giornali non c’è solo il problema dell’ignoranza: uno sa che i giornalisti non hanno modo di occuparsi ed indagare a fondo quello che scrivono, spesso uno non si occupa neanche di quel tema, ma deve lo stesso scriverci sopra un pezzo, spesso ci è anche la malafede indotta.
Mi è capitato di parlare di recente con un sociologo, Daniele Cologna, mi diceva di aver incontrato una giornalista che stava scrivendo un articolo sulla storia dell’immigrazione cinese in Italia, ha fatto tutta la storia dagli anni venti in poi, alla fine gli ha chiesto: mi dai dei dati sulla criminalità cinese ? Lui ha detto “ma perché devi metterci dentro un trafiletto sulla criminalità.quei dati ce li ho ma non te li do, ma cosa diavolo centra con la storia dell’immigrazione?” Alla fine è saltato fuori che doveva mettere quei dati nell’articolo perché glielo aveva imposto il direttore. Non basta la buona fede del giornalista a volte c’è la malafede delle testate.
Avete sentito anche che sono usciti un paio di libri sui cinesi, parlando con Oriani uno di questi autori, mi ha chiamato quando è uscito il libro, mi ha detto “Gianni, guarda, scusami proprio, ma il titolo non l’ho scelto io” il titolo era “I cinesi non muoiono mai” il bello che il libro era stato fatto proprio per demolire questi pregiudizi lui mi ha detto, guarda il titolo io ho proprio cercato di cambiarlo, di metterne uno appropriato, ma l’editrice ha voluto mettere questo titolo.
Mi piaceva richiamare a parlare le seconde generazioni perché l’indifferenza porta alla diffusione di questi stereotipi che ognuno può in qualche modo demolire. L’indifferenza non porta al cambiamento ed una situazione come questa va cambiata non si può rimanere indifferenti ed ininfluenti.

Volevo concludere leggendo un pensiero di Emil Gustav Friedrich Martin Niemöller pastore luterano tedesco ferocemente contrario al pensiero nazista di Hitler. Lui ha scritto questo.

Prima vennero per i comunisti ed io non dissi nulla
Perché non ero comunista.
Poi vennero per i socialdemocratici ed io non dissi nulla
Perché non ero socialdemocratico
Poi vennero per i sindacalisti ed io non dissi nulla
Perché io non ero un sindacalista
Poi vennero per gli ebrei ed io non dissi nulla
Perché io non ero un ebreo
Poi vennero a prendere me
Ma non c’era più nessuno che potesse dire qualcosa.

redazione ha detto...

ABDERREZAK ZOUHARI
Comitato Giovanile islamico in Italia - Segreteria Genti di Pace-j:

UNA STORIA DI INTEGRAZIONE

È bello essere qui insieme, è bello salutarvi con tante lingue, è bello vedere persone di tante culture tutti insieme, uniti in un confronto per un discorso che ci accomuna, cioè costruire un futuro migliore per noi e per la città dove viviamo.

Spero che l’emozione che ho dentro di me non mi schiacci prima di finire il mio discorso.
Voglio raccontarvi una storia, la mia storia, perché penso che possa essere una immagine di integrazione possibile, riuscita bene, nonostante tante difficoltà.

Sono nato in Marocco e a 9 anni, quando ero già in Italia, ho deciso che il mio compleanno era il 10 ottobre. Quando sono nato mio padre era immigrato in Italia da un po’ e mia madre stava in campagna e lì le donne non hanno il tempo di registrare i bambini, uno nasce e basta.
Fa caldo e allora è estate, fa freddo è inverno. Così l’unico indizio sulla data è rimasta la nascita di mio cugino sei mesi prima di me, ma neanche quello era sicuro.

Ho passato una bella infanzia tra i giochi con molti bambini in una grande casa con tutta la famiglia, gli zii, i cugini, i nonni.

Vedevo però man mano sparire i miei amici attorno: immigravano in Spagna, in Italia … già a otto anni avevo l’immagine del sogno dell’Europa, era anche il desiderio di vedere mio padre tutti i giorni e non solo una volta all’anno, d’estate.
Nell’agosto del 1994 mi ricordo che una mattina presto alle 5 mi sono svegliato sulla terrazza in cima alla casa e mio padre mi ha chiesto se volevo seguirlo in Italia: sono corso a prendere i miei vestiti, ho salutato mia madre e i nonni e mi sono infilato nel furgone. Lì è iniziato il mio viaggio verso l’Italia.
Non c’è stata neanche la riflessione “finisco i miei studi” .. è stato un istante! E poi a 9 anni che cosa vuoi pensare a queste cose!

All’epoca bastava il passaporto per entrare in Italia, tutto era nuovo, ero entusiasta di tutto. L’unico pensiero era di arrivare.
E l’arrivo è stato a Milano, alla sera: la realtà, gli odori, le luci di notte, tutto intenso, tanto cemento grigio … e poi in una casa di due locali in via Paolo Sarpi (provenendo da una casa con tante stanze in cui stava tutta la famiglia, dove ero abituato a vedere la mamma) … lì invece abitavano mio padre, due zii e due miei cugini, erano tutti maschi.
Il primo giorno che sono uscito di casa ho trovato un portafoglio con dentro 30.000 lire, ho pensato “caspita in Italia basta la scopa e la paletta per trovare i soldi!”

La scuola non era ancora iniziata, i miei cugini di 11 e 13 anni vendevano accendini, io non avevo niente da fare tutto il giorno e li aiutavo.
Poi vedevo i miei compaesani che vendevano le sigarette agli angoli delle strade, pensavo che era normale, un modo per iniziare. In Marocco uno per cavarsela improvvisa un commercio: hai qualche cosa e la vendi.
Poi ho iniziato a capire che chi faceva l’ambulante scappava davanti alle divise, allora ho iniziato a capire che c’era qualche cosa che non andava, trasgredivano la legge italiana.

Alla fine di quell’estate è cominciata la scuola e ho iniziato a sentirmi diverso.
I miei compagni andavano a giocare a calcio al parchetto mentre io vendevo gli accendini: iniziavo a vedere la terra promessa così com’è veramente.
Uno straniero che arriva come mio padre, di solito non fa l’avvocato, ma pulisce per terra o fa il muratore e poi ci sono solo gli uomini della famiglia, manca la mamma che ti dice quando tagliare i capelli, come vestirti, come lavarti.

I miei compagni venivano a scuola accompagnati dalla mamma, puliti e pettinati, mentre io arrivavo da solo, con i capelli lunghi e non curato, perché non sapevo che cosa fare e mi domandavo “dov’è mia madre?”
Lì ho capito che ero straniero, l’ho capito man mano vedendo la realtà.
Ho anche un ricordo bellissimo in uno di quei giorni in cui facevo l’ambulante: è arrivata Elisabetta, una ragazza, che mi ha chiesto se volevo una cioccolata calda: è stata un’ondata di calore. Qualcuno che mi parlava e voleva prendersi cura di me. Nel mio paese, nel mondo dell’Islam, quando uno ti offre da mangiare lo stesso suo cibo, è come se diventa della famiglia.
Questi nuovi amici mi hanno portato alla scuola della pace della Comunità di Sant’Egidio. Tanti ragazzi stranieri, tutti a imparare l’italiano. Ho conosciuto degli italiano che mi davano la possibilità di un mondo diverso, mi offrivano un’amicizia possibile.
In quello stesso periodo ho conosciuto anche una signora italiana, la Piera, che per me è diventata una mamma, poi ho imparato a cucinare, a lavarmi i vestiti a mano, a pulire la casa.
A casa non c’erano discorsi, mio padre e gli zii arrivavano alla sera stanchi morti dal lavoro e si mettevano davanti alla TV.

Quello è stato un periodo difficile anche perchè l’Italia non era preparata per l’immigrazione, come mi sembra che non lo è adesso. Ma ci sono sempre delle persone e dei posti come la scuola della pace che sono l’esempio, la dimostrazione che c’è un mondo più bello che si può costruire non solo a parole, ma con i fatti, con l’affetto: io ho avuto la fortuna di incontrarli.

Nel ‘97 sono arrivate mia madre, mia sorella e gli altri fratelli, è stato un grande cambiamento. La famiglia era unita e completa. Io insegnavo a mia madre sia l’italiano, sia il modo di cucinare e di vivere qui.
Mi ricordo poi che a scuola, erano ancora le elementari, durante il Ramadan, alla pausa pranzo il preside dava a me e ai miei cugini le chiavi del suo ufficio per andare a giocare, mentre i compagni mangiavano: era una cosa bellissima, rispetto per la mia cultura e la mia religione e fiducia insieme.

Negli anni successivi ho conosciuto Comunità Nuova e don Gino Rigoldi, i compagni di scuola di tanti paesi, la gente più diversa, ho lavorato al Barrios, dove venivano persone di tutti i tipi, dal mafioso che vendeva la droga lì fuori a quelli delle diverse associazioni. Ho imparato a vedere le persone da dietro il bancone del bar e a stare un po’ con tutti.
Poi c’è anche il momento in cui ti innamori, ma c’è sempre una barriera perché un ragazzo magrebino non si vede in giro con una ragazza italiana…

Anche alle superiori non sono mancate le difficoltà, ma forse le difficoltà che ho incontrato sono state una spinta a uscirne, a trovare delle strade per reagire. Nel 2001 dopo gli attacchi negli stati uniti c’è stato un periodo di diffidenza anche i compagni mi guardavano in modo diverso e quasi mi facevano una colpa per la mia religione, io rispondevo che ero sempre lo stesso di prima, che la religione non c’entrava perché un vero musulmano non usa la violenza.

Io dalla mia religione ho imparato che anche con poco si vive felici. Se hai amici veri e una bella famiglia, quello riempie il tuo cuore di calore e ti aiuta a superare quella emarginazione in cui gli altri ti spingono. Già sei straniero e allora rischi la solitudine e ho visto molti che nella solitudine si rifugiano nell’aggressività e nella violenza.

Ora lavoro come elettrotermico da un po’ di anni e anche sul lavoro spesso bisogna lottare per avere rispetto dagli altri. Ho cercato di fare l’università e ancora adesso penso che posso andare avanti a specializzarmi. Se fossi stato il 3° o il 4° figlio forse sarebbe andata in modo diverso.

Ultimamente ho deciso di conoscere meglio la mia tradizione religiosa, l’islam. Ho ripensato anche ai miei amici della Comunità di Sant’Egidio che attraverso la fede guardano le altre persone come fratelli e li aiutano: è un modo particolare di guardare il mondo. Io mi domando con i miei amici che cosa significa vivere come musulmano e come italiano, non è facile, ma vedo che non sono il solo.

Nel raccontarvi la mia storia mi convinco sempre di più che se guardi la gente per come appare da lontano, dividendola tra cinesi, marocchini, italiani oppure ricchi e poveri e così via non arrivi molto lontano.
Se non ci vivi con le persone, se non ci mangi, non chiacchieri, non capirai mai la loro realtà. Non ci si può basare su quello che si vede alla TV o quello che dice la gente in giro.
Bisogna conoscersi, entrare nella vita degli altri, immergersi nei colori, nei pensieri, soprattutto quando sono diversi dai tuoi, allora si può pensare di costruire qualche cosa insieme perché non si è più estranei e non si è più stranieri. Per questo mi piace essere qui.
Grazie

redazione ha detto...

CECI

Mi chiamo Anna Cecilia, per gli amici Ceci, e faccio parte del “Gruppo Romero”, il gruppo giovani della comunità salvadoregna; abbiamo partecipato con molta gioia perché siamo molto contenti di questa iniziativa. La comunità salvadoregna è nata negli anni ’70 dalle prime donne salvadoregne emigrate in Italia, si è consolidata negli anni ‘80 e nel 2000 è nato il gruppo Romero.
Il nostro gruppo è nato per tre motivi fondamentali: prima di tutto per rispondere alla solitudine. Infatti, un giovane fra i diciotto e i sedici anni che lascia la propria terra e la propria famiglia per venire in Italia si trova solo in un mondo sconosciuto. La solitudine può portare ad auto-escluderti dalla società ed a ghettizzarti o a cercare un gruppo con cui puoi condividere le difficoltà della migrazione. Il secondo è la scelta di fare un cammino di fede, ispirandoci a Monsignor Romero, un vescovo martire della chiesa salvadoregna che è stato ucciso perché durante la guerra civile denunciava durante le sue omelie le violenze che venivano compiute da entrambe le parti in lotta. Inoltre, abbiamo maturato la consapevolezza di voler essere un ponte fra la società italiana ed i nostri connazionali perché crediamo che gli immigrati non siano solo quelli che hanno bisogno di qualcosa dalla società, ma che possano essere anche una risorsa sia per la città che ci accoglie sia per i nostri connazionali o che sono appena arrivati o che comunque hanno bisogno di un orientamento per i corsi di italiano e per il rapporto con le istituzioni.
Per quel che riguarda le seconde generazioni: in comunità ci sono molti salvadoregni che sono nati in Italia, anche grazie all’aumento dei matrimoni misti e con l’associazione Sole e terre abbiamo fatto un progetto dal quale emergeva un disagio dovuto al fatto che, pur essendo nati in Italia e sentendosi italiani, devono comunque procurarsi il permesso di soggiorno. Si sentono italiani ma la società italiana non li riconosce come tali. C’è chi al contrario scopre il suo paese di origine venendo nel nostro gruppo, perché essendo nato e cresciuto in Italia pensava che tutto il mondo fosse lì. Con noi scoprono la realtà del Salvador e di diversi paesi poveri.
Tra l’altro le seconde generazioni non si sentono nemmeno cittadini salvadoregni, se tornano in madrepatria vengono presi in giro perché non parlano bene lo spagnolo.
Poi c’è il problema dei giovani che non sono nati in Italia, ma ci arrivano tramite i ricongiungimenti famigliari, a causa dei ritardi provocati dalla burocrazia, spesso, anche se chiedono il ricongiungimento da molto piccoli, arrivano in Italia in piena adolescenza. E oltre alle problematiche normale di questa fase della vita si aggiungono le problematiche dovute all’essere straniero, inoltre vi è la difficoltà di rifarsi un rapporto con i propri genitori anche perché magari tua madre si è rifatta una vita con un altro uomo o tuo padre in Salvador l’ha tradita. Se poi all’interno della scuola non ci sono ancora mezzi sufficienti a garantire l’integrazione, rispetto a quando sono arrivata io ci sono degli strumenti mediatori culturali ed altro ma non è ancora sufficiente . Mi colpisce che ancora, dopo così tanti anni di immigrazione in Italia, la scuola non riesca a garantire un’integrazione ed a volte sia teatro di episodi di razzismo. Se non si creano le condizioni per cui nella scuola, ambiente di socializzazione controllato per eccellenza, si faciliti l’integrazione, c’è il serio rischio che l’adolescente si identifichi in gruppi come ad esempio, parlo della realtà sudamericana, le bande giovanili.
Non dico che sia semplice, ma se ci proponiamo un lavoro di rete sia possibile fare un lavoro grosso di integrazione.
Per quello che riguarda la burocrazia io ho vissuto l’assurda situazione per cui non riuscivo a fare la richiesta per la carta di soggiorno perché i mesi da cinque sono passati a sei, ma nel frattempo sono riuscita a fare la richiesta per avere la cittadinanza. Oltretutto la cittadinanza l’hanno data a mia madre, ma non era detto che la dessero a me perché non avevo i contributi necessari negli ultimi tre anni. Ora se io sono uno studente lavoratore il mio reddito non può essere alto, non ti vanno a chiedere se sai l’italiano e che cosa conosci del paese che ti ospita, ti chiedono quanto guadagni . Grazie ancora.

redazione ha detto...

AHMED

Sono Ahmed dei Giovani musulmani d’Italia; per prima cosa volevo ringraziare per l’iniziativa, molto spesso sentiamo persone che dicono che i comuni, le istituzioni e lo stato devono fare qualcosa per gli immigrati, ma credo che il mezzo più efficace per sensibilizzare le persone sia incontrarsi e parlare. Credo che replicare questo tipo di iniziative sia lo strumento più efficace.

Quella dei “Giovani musulmani d’Italia” è un’associazione nata soprattutto per colmare quel vuoto, quelle difficoltà che hanno spesso gli stranieri, infatti la maggior parte dei musulmani in Italia sono stranieri . Dire immigrato di seconda generazione non conta nulla, è come se fosse uno status che ci si passa da padre in figlio, visto che mio padre è immigrato io sono immigrato anche se sono nato a Cernusco sul Naviglio. Io nel caso sono straniero perché sono nato al Cairo, sono immigrato piccolissimo a Roncello, in Brianza; mia madre vestiva di bianco, perché allora in Egitto era di moda, e sembrava una suora. Le facevano spesso la battuta: “Sa, non sapevo che le suore potessero sposarsi ed avere dei figli.”
La nostra associazione è un associazione diffusa sul territorio nazionale : ci siamo a Milano, Torino e Sassuolo. Noi sostanzialmente ci riuniamo molto spesso e non facciamo che creare punti d’incontro soprattutto per i musulmani.

Mi ha molto colpito quello che ha detto il fratello Arba sul fatto che ci si sente soli , soprattutto quando si va a scuola per uno straniero portarsi in giro un cognome lungo due righe come gli egiziani o anche i marocchini può far sentire diversi. Noi insegniamo ai ragazzi ad esprimere al meglio la loro diversità ed a metterla a disposizione di persone che non la capiscono.

Mi interessava soffermarmi sulla questione dello “straniero uguale criminale”: concetto che passa molto spesso per responsabilità dei politici, di chi gestisce i mezzi di comunicazione, ma anche della gente comune. Molto spesso una chiacchierata fatta con il barista che urla dietro ad un cinese può essere molto efficace!
La questione dello straniero uguale criminale si vede nella proposta di legge per istituire il reato di immigrazione clandestina, così Jianyi, invece di essere l’unico clandestino laureato d’Italia, sarebbe stato l’unico criminale clandestino con la laurea presente sul suolo nazionale.

Secondo me bisognerebbe parlare con le persone e farle ragionare su chi sia lo straniero: molto spesso si lega ancor prima che straniero criminale , straniero quello che ho visto al tg2 scendere dal gommone piuttosto che non quella persona un po’ strana che c’è sotto casa mia e che vedo fare cose sospette al parchetto. Molto spesso lo straniero è quello che ci fa la pizza napoletana, c’è scritto pizza Napoli e poi sono egiziani.

Bisogna parlare soprattutto ai giovani che subiscono di più l’influenza dei titoli dei giornali. Perché se uno è straniero, magari di religione islamica come me, e si legge quei titoli ad effetto si sente disprezzato . Dobbiamo continuare a spiegare che lo straniero è il pizzaiolo è il muratore e replicare il più possibile questo tipo di iniziativa.
Vi invito dunque a replicarle il più possibile e a partecipare alle iniziative promosse vuoi da stranieri, vuoi da persone di buona volontà come quelle che hanno accolto il fratello per diffondere una nuova immagine degli stranieri.

redazione ha detto...

RASHID

Sono Rashid, vengo dal Marocco e faccio parte del Comitato Giovanile Musulmano in Italia.

Volevo dire che anche gli immigrati hanno sbagliato tanto, nel momento in cui non hanno provato ad integrarsi in questo paese. Uno straniero che ha la sua cultura ed il suo modo di vivere al suo paese deve cercare di adattarsi perché siamo in un’altra città , dobbiamo collaborare con gli italiani per costruire una cultura che accoglierà tutti.

Voglio ringraziare i fratelli di Genti di Pace per questo incontro: è un incontro che dà una spinta alla luce della speranza che vediamo davanti a noi. Se andiamo fuori adesso cambia la vita , sparisce il razzismo. Io sono felicissimo e soddisfatto non dobbiamo dare la colpa né agli italiani, né agli immigrati. Non importa se sei arrivato qui in Italia da quarant’anni o da trentacinque, non hai la possibilità di starci se non siamo accolti, non ci siamo solo noi, c’è anche l’austriaco che sta in Italia. Se collaboriamo, come vediamo in quest’incontro, è una meraviglia. Questo è solo l’inizio di una strada, ma è la strada che porta alla lunga pace che possiamo vivere. Purtroppo, ora non è ancora così, c’è qualcuno che ha fatto la sua campagna elettorale sugli immigrati e li ha usati per far girare la sua ruota: oggi si vede un volto nuovo dell’immigrazione.

redazione ha detto...

DANILO

Danilo
Mi sembra molto importante quello che è stato detto sulla solitudine degli stranieri che vengono spesso lasciati soli ad affrontare il problema dell’integrazione che è un problema molto grande. Io vedo che siamo qui in tanti studenti per offrire una mano ai nostri amici stranieri e per fare una cosa importante che è fare cultura, come diceva prima Arba. Per spiegare agli italiani che i nostri strumenti non ce li hanno e che magari non hanno mai conosciuto nella loro vita delle persone straniere e che vivono nel pregiudizio quale sia in realtà la situazione degli immigrati. Possiamo essere dei ponti e questa è davvero una cosa che possiamo fare tutti. Spesso dell’immigrazione si parla sempre in grande, come di qualcosa di cui si devono occupare i governi, gli stati e le istituzioni e invece non ci si rende conto che è un lavoro di squadra: non devono farlo solo i governi, non devono farlo solo le istituzioni, ma devono farlo tutti i cittadini. Penso che noi siamo una realtà che ha la fortuna di stare a stretto contatto con gli stranieri e credo di riassumere tutto quello che avete detto dicendo che ci dobbiamo impegnare di più per iniziare a combattere questo clima . volevo ringraziare per i vostri racconti che sono stati molto belli.

redazione ha detto...

ARNOLD

Noi da tempo in Italia siamo italiani, possiamo fare da ponte fra le prime generazioni e la realtà italiana. Io conosco degli italiani in università che stanno cambiando: adesso sono simpatici con me. Il problema è che non ci conoscevamo prima; io sono togolese e loro della realtà del mio paese non sapevano nulla. Poi c'è il problema dei giornalisti che dicono sempre, riferendosi a chi è straniero, extracomunitario. Bisognerebbe capire perché però nessuno abbia mai dato dell'extracumunitario ad uno svizzero!
Quindi noi della seconda generazione abbiamo molto da fare.