domenica 17 maggio 2009

"Memoria e futuro. Rwanda: 15 anni dal genocidio"

"Memoria e futuro.

Rwanda: 15 anni dal genocidio"

Nei commenti la testimonianza di Emmanuel, giovane testimone del genocidio.

Le foto al link http://picasaweb.google.com/mondomisto/MemoriaEFuturoRwanda15AnniDalGenocidio#


(Continua a leggere...nei commenti)

10 commenti:

redazione ha detto...

Rwanda Memoria e futuro

Stefano Pasta:

Siamo contenti di trovarci qui oggi al Leone XIII, che è una scuola importante di Milano ed è la sede della Lega Missionaria e siamo contenti di trovarci qui a sentire la testimonianza di Emmanuel.

Emmanuel è un amico che viene dal Rwanda e studia all’Università Cattolica di Milano; lo abbiamo invitato perché quest’anno è il 15esimo anniversario di questo genocidio, avvenuto nel 1994 e vogliamo farne memoria insieme.
Vorrei davvero ringraziarlo a nome di tutti perché penso che sia difficile ritornare a momenti così difficili nella tua storia e per il paese: la tua testimonianza è importante perché ci aiuta a capire cosa ha voluto dire il genocidio. Molti di noi, nel 1994, erano bambini o comunque ragazzi e ci ricordiamo poco di quel che è successo; per questo crediamo che sia importante che tu ci aiuti a non dimenticare questo genocidio perché vogliamo costruire un mondo in cui si viva gli uni accanto agli altri senza paura.

L’amicizia con l’Africa è sempre stata una parte costitutiva del percorso di Genti di Pace; molti di noi si ricordano un incontro che abbiamo fatto con gli amici mozambicani, Inroga (che è tornato in Mozambico) e Djamila (che è invece in Nuova Zelanda a studiare). In quei mesi, Dicembre di quasi un anno fa, c’erano state in Mozambico delle devastanti inondazioni: abbiamo organizzato l’incontro anche perché eravamo rimasti impressionati dall’indifferenza che circondava questa tragedia in Europa ed in particolare in Italia. Ci siamo ritrovati insieme per vivere la nostra amicizia con l’Africa, noi l’abbiamo chiamata Eurafrica. Pensiamo ad esempio alla differenza con quanto è avvenuto in Abruzzo col terremoto; molti di voi sono stati in Abruzzo ed avete visto quante persone si sono mobilitate per quanto è successo .

Noi riteniamo che sia importante sostenere Eurafrica, ossia che l’Europa e l’Africa devono avere un futuro comune: senza un comune destino con l’Europa l’Africa non ha futuro, ma anche l’Europa senza l’Africa perde parte del suo significato e della sua storia: l’Europa e L’Africa si affacciano sullo stesso mare, il Mediterraneo e per questo sono destinate ad avere un futuro comune. Genti di Pace mostra come Eurafrica sia anche una realtà: molti di noi vengono dall’Africa e stiamo bene, siamo amici insieme.

Il genocidio in Rwanda è importante perché ci fa vedere il pericolo di un’Africa sofferente abbandonata dall’Europa.
Il Rwanda è un piccolo paese, un fazzoletto di terra al centro dell’Africa, nella regione dei Grandi Laghi; questa regione, di cui fanno parte il Congo, il Burundi e l’Uganda, ancora oggi è segnata da disordini, guerre e conflitti: pensiamo come negli ultimi mesi nel Congo, in Kivu, ci sia stata una guerra che ha provocato un’emergenza umanitaria con migliaia di profughi nei campi e di come adesso non se ne parli più.
Anche la guerra in Kivu è legata alla storia del Rwanda: il genocidio del ’94 infatti ha seminato semi di odio e di vendetta fra le etnie diffuse nella regione dei Grandi Laghi, che continua ad essere segnata da scontri e da tensioni.

(continua nel commento successivo)

redazione ha detto...

(continua)


Nel 1994 in Rwanda sono state uccise quasi un milione di persone e altri tre milioni sono fuggite nei campi profughi e nei Paesi confinanti.
Nel Paese c’era una forte tensione fra le due etnie, gli hutu ed i tutsi: la divisione era stata creata dal regime coloniale europeo, prima dai tedeschi e poi dai belgi; gli europei avevano teorizzato la diversità razziale fra hutu e tutsi e poi la superiorità razziale dei tutsi sugli hutu, creando anche le carte di identità in cui si segnava l’origine etnica. Il regime coloniale europeo favorì i tutsi, che erano una minoranza ed erano trattati meglio; con l’indipendenza i tutsi furono considerati complici del colonialismo dalla maggioranza hutu.
La situazione precipitò il 6 aprile del 1994 quando l’allora Presidente Habyarimana, che era al potere del 1973 fu ucciso da un missile che abbatté il suo aereo; ancora oggi non si sa chi sia stato l’autore di quell’attentato, ma siccome il presidente era hutu i tutsi vennero considerati i responsabili e la gente fu travolta dalla rabbia. Il giorno successivo, cioè il 7 aprile, nella capitale iniziò il massacro di tutsi da parte dei giovani hutu. In particolare, la radio lanciava slogan molto forti ed invitava ad uccidere gli scarafaggi tutsi. In cento giorni vennero assassinate più di un milione di persone, casa per casa; la furia omicida non risparmiò nessun luogo, ad esempio nelle chiese ci furono degli enormi massacri; uno dei più violenti ci fu a Gikoncoro, dove vennero uccise 27000 persone senza pietà, a colpi di machete, e poi gettate nelle fosse comuni.

La storia del genocidio del Rwanda è però anche la storia dell’indifferenza dell’Europa e di un’opinione pubblica che in quegli anni era distratta dai mondiali di calcio. L’ONU si disinteressò alle richieste di aiuto che provenivano soprattutto dal contingente canadese che era presente nello Stato e addirittura nei mesi successivi alle uccisioni ridusse il suo contingente da 2500 a 500 uomini. Il peggio lo fece la Francia, che aveva addestrato delle milizie paramilitari e si preoccupò soltanto di far rientrare i propri concittadini, mentre la Cina fece grandi affari vendendo i machete e le armi. Per questo penso che dobbiamo sentire un po’ la responsabilità del genocidio del Rwanda, perché è un capitolo doloroso della storia del nostro tempo, e ci parla di quanto è pericolosa l’indifferenza dei Paesi ricchi e dell’Occidente verso i Paesi più poveri, in particolare i Paesi africani.


Credo che la storia dei Rwandesi colpiti e feriti dalla violenza ci chieda di non essere indifferenti, ad esempio, rispetto a chi adesso sta nei campi profughi in Kivu, in Congo, e scappa dalla guerra.

Penso però anche ai tanti africani che scappano da Pesi in guerra come la Somalia, l’Etiopia, l’Eritrea e il Sudan, che cercano, rischiando la vita, con barconi di fortuna, di arrivare in qualsiasi modo in Italia e in Europa. Sappiamo come proprio in questi giorni il nostro Paese si sia vantato di respingere questi barconi e abbia rimandato in Libia chi proveniva da queste regioni. Il rischio è appunto che l’Italia, Malta, l’Unione Europea decidano di chiudersi come una fortezza e quindi di non essere toccati dai problemi dell’Africa. Allora penso che per noi sia proprio importante per noi oggi avere amici come Emmanuel che ci ricordano come è essenziale far vivere il sogno di Eurafrica e di vivere l’amicizia con l’Africa. Per questo ora ti ringraziamo molto e ascoltiamo la tua testimonianza; ti ringraziamo anche perché è in italiano, che tu parli benissimo.

redazione ha detto...

EMMANUEL GENTIL MUSONERA:

Grazie, sono un po’ emozionato. Mi chiamo Emmanuel e vengo dal Rwanda, un Paese che, anche se è piccolo, è bello ed è tra i grandi Paesi come il Congo, l’Uganda, la Tanzania e il Paese fratello Burundi. Questo Paese di splendide tradizioni e in cui la primavera non finisce mai, un Paese con un popolo accogliente e in cui si trovava umanità. Detto questo uno può chiedersi perché quando il 6 aprile il Presidente è stato assassinato dopo un giorno il Rwanda è diventato un inferno. Mi ricordo che c’era una leggenda secondo cui Dio di giorno si sposta negli altri Paesi ma ritorna in Rwanda per dormire e quindi si diceva che il Rwanda era la casa di Dio. Non voglio dire che Dio si sia dimenticato di rientrare quella notte del 6 aprile, però voglio chiedere come mai da quella notte del 6 aprile 1994 i fratelli si sono ammazzati, perché questa cosa ha potuto accadere.

Già dall’inizio si vedeva e si sentiva che c’erano purtroppo differenze etniche, ma c’era una convivenza forte. Io nego che il genocidio sia dovuto a motivi etnici, secondo me è il risultato della politica. Prima che venissero i colonizzatori c’era un legame forte tra i fratelli, però quando sono venuti, loro facevano finta di servire il popolo, invece volevano essere serviti. Hanno diviso il popolo per poter governare bene; in quell’epoca chi aveva tante mucche era senz’altro tutsi, chi coltivava la terra era hutu. Ciò significa che siccome questa classe dirigente, che aveva tutto, era minoranza, era tutsi; anche un hutu che riusciva ad avere tante mucche diventava tutsi e aveva un titolo significativo nella società. I Tedeschi sono stati i primi a colonizzare il Rwanda e quando hanno perso la prima guerra mondiale il nostro Paese è stato assegnato all’autorità belga. I Belgi quando sono venuti da noi hanno”incasinato” tutto (mi permetto di dire questo), perché hanno introdotto la carta d’identità per dividere in modo evidente, così anche i fratelli hanno cominciato ad odiarsi tra loro. Questi colonizzatori, erano dalla parte dei tutsi, che erano una minoranza; questo significa che la maggioranza aveva la missione di emanciparsi e liberarsi anch’essa. Nel 1959 hanno cominciato a fare la rivoluzione e hanno vinto; quando sono venuti al potere gli hutu la maggior parte dei Paesi si Africa stava raggiungendo l’indipendenza e anche il Rwanda l’ha ottenuta sotto la maggioranza hutu. Quando gli hutu hanno raggiunto il potere non avevano la missione di riconciliare il popolo e di far sognare l’unità ruandese.Hanno continuato a perseguitare i tutsi come vendetta; i primi tutsi si sono rifugiati in Uganda nel 1959, altri se ne sono andati nel 1973 e nel 1990; questa autorità ha continuato a seminare odio attraverso i mass media.

Anche gli insegnanti erano agli ordini di questo governo, quindi se eri un tutsi non potevi sostenere l’esame per andare all’Università ma dovevi lasciare il posto ad un altro. I tutsi avevano dei limiti per accedere al potere e questo cosa ha continuato, ma siccome i ruandesi sono un popolo contadino continuavano a vivere serenamente, però c’era qualcosa che stava crescendo e che nessuno riusciva a capire. Io ho la mamma hutu e il papà tutsi, però sono cresciuto in una famiglia hutu; in Rwanda quando si dice famiglia si intende la famiglia allargata e c’è una tradizione secondo cui il primogenito doveva essere consegnato ai nonni e aiutare i nonni. Io sono andato a vivere con i miei nonni da piccolo, quando avevo tre anni, e sono cresciuto con loro. Dico che ho ricevuto tanto perché mi hanno dato la cultura e le tradizioni belle. Quando si parlava dei tutsi io non me ne occupavo e non capivo niente perché ero hutu e dove abitavo la maggioranza era hutu e i tutsi erano pochi.

(continua nel commento successivo)

redazione ha detto...

(continua)

Ho continuato la mia vita felice, però quando siamo arrivati al 7 aprile, al mattino, mi ricordo che il tempo era cambiato ed è piovuto dal mattino fino alla sera. Non si sentivano cantare gli uccelli che di solito cantavano alla mattina, la vita sembrava un’altra cosa. Io ho chiesto ai miei nonni cosa stava accadendo e loro non volevano spiegarmi bene perché magari pensavano che io potevo avere paura di qualcosa. Ho sentito rumori e voci di persone che venivano uccise; le case dei vicini venivano bruciate, il cielo si riempiva di fumo perché dappertutto c’erano fuochi ed incendi. Io volevo andare fuori a giocare come ero abituato, ma ho iniziato a vivere una vita un po’ diversa. Mi ricordo che verso l’una, le due una persona ha detto a mia nonna (mio nonno era già morto quella mattina) che i tutsi dovevano essere uccisi tutti quanti perché se il Presidente era stato assassinato era colpa loro e quindi dovevano pagare. Io ho chiesto a mia nonna se non ci sarebbero stati problemi visto che mio padre era tutsi, ma lei mi ha detto “Non preoccuparti, tu sei hutu”. Lei mi diceva sempre che ero hutu ed io ero contento perché mi sentivo salvo. Poi anche la gente che abitava con mia nonna non sapeva tanto di mio padre, che abitava in città a Kigali, mentre mia nonna abitava in una zona rurale distante 45 chilometri dalla capitale: quindi non tutti sapevano questo segreto. Verso sera non si sentiva nessuna voce, ognuno era a casa sua, la vita era cambiata, un’altra cosa che non si riesce a definire; sono andato a letto con la preoccupazione e la paura. Il giorno dopo abbiamo sentito delle voci che dicevano che stavano andando a bruciare la chiesa. La chiesa da noi è vicino a casa mia e ci andavo anch’io con la nonna ogni domenica. I tutsi pensavano che la chiesa è un luogo sacro, un luogo di Dio, quindi erano andati a rifugiarsi là dentro per salvarsi. Poi sono venuti questi estremisti, non dico hutu perché secondo me è un modo di generalizzare che non va bene; sono venuti questi estremisti hutu con l’appoggio del governo, che spingeva le macchine per dare una mano. Sono entrati nella chiesa: era la chiesa dei salesiani, c’erano anche degli italiani, ed era una chiesa costruita bene, con i materiali adeguati. Hanno provato a sparare, ma non riuscivano ad uccidere nessuno, allora sono andati a chiedere rinforzi a Kigali e sono tornati con bombe e granate, così sono riusciti ad uccidere le persone che erano dentro.



C’era il mio miglior amico, un mio coetaneo, che era dentro con la sua mamma, ma la sua esperienza è stata veramente terrificante: non voglio raccontare la sua storia perché sarebbe un’altra cosa, perché sua mamma era tutsi, suo padre hutu e suo padre ha ucciso la moglie e ha lasciato solo i suoi figli: immaginate quando una persona arriva al punto di uccidere la moglie solo per ideologia. Questo mio amico è ancora in Rwanda e sta studiando all’università. Hanno ammazzato tutti tranne questo ragazzino; la strage è continuata così finché, quando hanno ammazzato tutti i tutsi, si sono messi ad ammazzare anche gli hutu moderati. Un giorno qualcuno è venuto da noi e ha detto: “Voi avete in casa un ragazzo tutsi e lo vogliono uccidere”. Questa persona era un amico della nostra famiglia e ha detto “Vi consiglio di fare di tutto per far scappare vostro figlio”. La nonna diceva che non avrebbe permesso a nessuno di entrare, però non era possibile; la mamma abitava anche lei vicino a mia nonna perché non abitava più con mio padre perché c’erano problemi tra loro e ha detto che bisognava prendere sul serio la persona che ci aveva rivelato quel segreto, per cui si doveva fare qualcosa.


(continua nel commento successivo)

redazione ha detto...

(continua)


Mia mamma mi ha portato da una famiglia anziana in una zona rurale e in una casa isolata, dicendomi che dovevo restare lì fino alla fine. Quella famiglia, che era hutu, è stata gentile a mantenere il segreto, solo che io ogni tanto volevo scappare: mi ricordo un giorno in cui stavano litigando tra loro e io sono uscito con l’intenzione di giocare. Io volevo sempre incontrare miei coetanei e miei vicini per giocare perché lì tutti i ragazzi di una famiglia si incontrano e giocano insieme e mi mancava quella vita. Io sono scappato e sono andato dove sentivo le voci degli amici e uno mi ha detto: “Ho sentito che la mia famiglia diceva che tu sei tutsi e devi morire”. Un altro gli ha detto “Perché lo dici, sei scemo?”. Io ho detto: “No. Non sono tutsi”. Sono tornato indietro: quel giorno avevo capito , davvero com’era la situazione, per cui ho fatto finta di non avere paura, poi quando sono arrivato in un posto in cui nessuno mi vedeva ho cominciato a correre e sono tornato a casa.

Poi verso giugno-luglio il Fronte Patriottico Ruandese era già entrato nel Paese ma non si sapeva niente. Eravamo disperati: io a un certo punto volevo uscire e dire che accettavo tutto; mi ricordo che la mamma veniva a tenermi compagnia in questa casa e a portarmi qualche volta da mangiare, però la mia non era vita, era un’altra cosa.


Quando il Fronte ha liberato la nostra zona ci ha chiamati per andare in un posto dove potevamo essere sicuri. Siamo andati in un campo della nostra regione orientale che distava trenta chilometri. Siamo andati a piedi con qualche bagaglio sulla testa; lì ho vissuto una vita tremenda e ho dovuto assumermi la responsabilità della famiglia e diventare un’altra persona. Sono arrivato lì con la mia famiglia; pioveva, era un periodo di pioggia (da noi tra marzo e inizio giugno piove quasi ogni giorno) e noi non avevamo niente, solo una tenda bucata che avevamo trovato in giro. Quando siamo arrivati non c’era niente da mangiare; dopo due giorni la mamma si è ammalata, l’ho portata all’ospedale della Croce Rossa che per fortuna era lì vicino, sennò sarebbe morta.

Mia nonna era anziana, aveva ottantaquattro anni, quindi c’ero solo io che potevo aiutare mia nonna, la mia sorellina aveva quattro anni e poi c’era anche da portare qualcosa alla mamma in ospedale. Vicino non c’era niente da prendere perché gli altri rifugiati che c’erano prima avevano mangiato tutto, bisognava andare più lontano. Lì io, che sapevo cucinare poco, ho imparato; sono andato a cercare cibo da cucinare perché la mattina l’impegno era cercare acqua, in quanto l’acqua si trovava lontano. Sono andato a cercare acqua e ho sentito un odore terribile: ho alzato lo sguardo e intorno ho visto un mucchio di cadaveri: ho perso il controllo, ho buttato via il bidone che avevo e sono tornato a casa. Quando sono tornato a casa non avevo acqua e non avevo niente da mangiare e mi sono chiesto come potevo fare; ho dovuto chiedere a qualcun altro se sapeva un altro posto in cui potevo trovare acqua e mi hanno detto che bisognava superare un’altra collina. Io sono andato, ho preso l’acqua e sono ritornato, poi ho cercato qualcosa da cucinare. Andavo anche a trovare la mia mamma all’ospedale, però il peggio non era ancora arrivato.

redazione ha detto...

(continua)

Dopo qualche giorno mi sono svegliato per andare a prendere l’acqua, perché era indispensabile farlo, ho lasciato la nonna con la mia sorellina accanto come al solito. Quando sono tornato ho chiesto a mia sorella perché era fuori della tenda e lei mi ha detto che la nonna era arrabbiata con lei e non le parlava. Sono entrato nella tenda e, anche se non avevo mai toccato una persona morta, ho capito subito perché mia nonna era freddissima. Non ho detto a mia sorella che la nonna era morta, sono andato da un mio amico che ha chiamato suo padre e mi ha aiutato. Io però non volevo avvisare mia mamma perché stava male ma lui mi ha detto che dovevo farlo perché non potevamo fare il funerale senza mia mamma. Io sono andato ad avvisare la mamma; lei mi ha detto di controllare se c’era qualcuno, poi si è sfilata la flebo e siamo andati in questo campo per i rifugiati. Siamo arrivati e abbiamo fatto tutto: la mamma stava sempre più male, siamo tornati in ospedale e una persona si è arrabbiata perché era scappata, ma io non capivo cosa diceva perché era francese. Sono tornato e mia sorella mi chiedeva dov’era andata la nonna, ma io non volevo dirle che era morta. Era difficile convincere mia sorella a stare in tenda da sola, però doveva accettare la situazione. Ho continuato questa vita da solo e con questi impegni, meno male che dopo sei-sette giorni la mamma è tornata ed era guarita. La mamma quando è venuta mi ha detto che non dovevo fare niente, ma io le ho detto “No, anch’io devo lavorare, adesso sono grande”. Da quel giorno abbiamo lavorato assieme, però era già luglio, e ad agosto siamo tornati dove abitavamo prima perché la guerra era finita; anche se ai confini con il Congo c’era qualcosa dove abitavamo noi non c’era pericolo e siamo tornati.

Non c’era più niente: le strade non c’erano più, era tutto bruciato, però la mamma si è messa a ricostruire, anche se nella nostra cultura una donna non può costruire niente, ma la vita era cambiata. Abbiamo provato a fare una capanna semplice e quando la pace è tornata la mamma mi ha spedito ancora a scuola. Mi ricordo che nessuno parlava con nessuno, anche se erano stati tutti ammazzati i tutsi che abitavano nella nostra zona, perché nel nostro villaggio il sindaco era particolarmente feroce nell’uccidere i tutsi. Tuttavia gli hutu rimasti non parlavano tra loro, non sembrava che ci fosse più vita, non si vedeva niente. Io ero stanco di questa situazione e mi ricordo che mentre prima ridevo sempre, anche quando qualcuno mi faceva male giocando (gli altri mi prendevano in giro per questo), ora non ridevo più e la mamma si preoccupava. Quando sono arrivato a scuola il primo giorno, ricordo che tutti giocavano alla guerra, nessuno riusciva a parlare e l’insegnante non riusciva a comunicare con noi, nessuno si salutava. Dopo due giorni ho detto alla mamma che non volevo più andare a scuola: prima la scuola mi piaceva perché mi piaceva giocare con gli altri ragazzi, ma dopo ho rifiutato tutto.

redazione ha detto...

Mia mamma ha visto che io stavo veramente male e mi ha consigliato di andare in un centro dei Salesiani diretto da un prete tedesco dove grazie a loro sono rinato. Quando sono arrivato lì la madre di questo prete, una tedesca lituana, è diventata veramente una persona importante e ha giocato un ruolo cruciale nel farmi ritrovare il senso della vita. Ha visto che io avevo un problema molto grande e mi è stata molto vicina. Io non volevo affidarmi a nessun altro, per me le uniche due persone sulla terra erano mia mamma e mia sorella, nessun altro contava per me, tutti gli altri per me erano ugualmente negativi. Per questo all’inizio ha fatto fatica anche con gli altri che vivevano con me in questo centro: loro non avevano difficoltà con me, ero io che non riuscivo a legare. Questa madre tedesca però ha fatto tutto, mi faceva vedere i film però io non riuscivo a sbloccarmi e ad essere contento. All’inizio non riuscivo a parlare neanche con lei; c’era un ragazzo che viveva con lei da tanto e parlava bene tedesco, per cui mi ha fatto imparare. Quando ho acquisito la capacità di parlare in tedesco lei mi ha aiutato dicendomi:”Guarda, io vengo da un Paese, la Germania, dove anche noi, dopo la guerra, non avevamo la speranza ed eravamo come voi qua”. Io non ci credevo, ma lei mi ha detto che da loro era ancora peggio; mi faceva vedere i film e un giorno mi ha regalato un biglietto per andare in Germania, ma io non capivo perché avesse fatto questo. Lei mi ha detto: “Guarda, questo Paese era come voi, è stato danneggiato dall’odio come voi, però dopo la gente ha capito e vedi adesso com’è la Germania?” Ho visto che era bellissimo, come un paradiso, qualcosa che non avevo mai visto nella mia vita e le ho chiesto “Quindi anche il Rwanda diventerà così un giorno?”: Lei ha detto “Sì, basta che tu sogni, che tu esprima un desiderio”. Quel giorno mi sono sentito carico di speranza e poi sono andato in parchi come Gardaland e c’erano delle persone tedesche che mi ospitavano con i loro figli, così la vita tornava ad essere normale. Sono tornato dopo mi ha regalato anche un viaggio nel suo Paese, in Lituania, e ho visto che lì c’era ancora qualche difficoltà: ho visto ad esempio i ragazzi di strada e mi sono detto che il Rwanda non è l’unico Paese del mondo in situazioni del genere.

redazione ha detto...

Quando sono tornato in Rwanda mi ha chiesto di farle il favore più grande della sua e della mia vita, quello di tornare scuola. Io non volevo, allora lei è andata a Kigali, ha comprato una bicicletta per convincermi; la bicicletta mi piaceva, anche se non ero capace di andarci, perché era un regalo enorme, come se qui qualcuno vi regalasse una Ferrari. Ero contento e sono tornato a scuola; non sapevo andare in bicicletta, ma piano piano ho imparato e sono riuscito ancora ad interagire con i ragazzi che vivevano nel centro e a giocare a calcio con loro. Poi su questo punto, dopo questi periodi difficili, il governo ha provato a fare qualcosa di importante: ha deciso di non basarsi più sulle distinzioni di identità, non si potevano più mostrare queste denominazioni e hanno distrutto tutti i documenti che riguardavano i tutsi. Il governo si è messo a sensibilizzare la gente sulla necessità di riconciliarsi anche se è difficile, perché ci sono i genitori che anche adesso non riescono a cambiare mentalità perché la parola è importante, la parola distingue dagli animali, come dicono i filosofi, siamo uomini perché riusciamo a comunicare, però come mai allora la parola diventa lo strumento per separare gli uomini? Gli insegnanti venivano controllati per vedere se c’era ancora qualcuno che insegnava cose ideologiche, ma gli insegnanti sono diventati bravi a non basarsi su questi concetti. Siccome il Rwanda ha deciso di elaborare un sistema per farci stare a scuola in collegio per tre mesi, siamo riusciti veramente a diventare di nuovo fratelli, perché la vita insieme, avere gli stessi vestiti, la stessa mensa, gli stessi professori ci ha fatto superare subito il punto in cui erano o forse sono ancora oggi i nostri genitori. Poi, quando tornavamo a casa per le vacanze, i genitori ci chiedevano come riuscivamo a vivere ancora con i tutsi oppure, per i figli dei tutsi, come riuscivano a vivere con i figli delle persone che avevano ucciso i loro genitori, perché anche i sopravvissuti volevano una scuola a parte, come del resto gli hutu moderati o i sopravvissuti ai primi genocidi del 1959 e del 1973. Questi genitori sopravvissuti volevano talvolta vendetta, ma il governo ha fatto una cosa importante, ha rifiutato di assecondare questo desiderio e ha cercato di far riconciliare ancora il popolo.
La scuola ha giocato un ruolo importante in questo processo e lo fa ancora: quando un ragazzo prova a sollevare un problema del genere viene punito in modo severo, sia che si tratti di un bambino tutsi sia che si tratti di un bambino hutu. Anche a me chiedevano a volte come mai frequentavo figli di hutu, ma siccome ero stato con loro in questo centro di Salesiani non davo più contro gli hutu, avevo superato anch’io questa cosa e non volevo che tornasse. Al centro c’erano alcuni documenti di ragazzi che volevano l’unità e la riconciliazione e direi che adesso siamo sulla buona strada. Quando torniamo a casa sentiamo anche i genitori anziani soprattutto che riescono veramente a cambiare anche alla loro età; per esempio se portiamo una fidanzata di un’altra etnia non c’è opposizione.

redazione ha detto...

Proviamo a sperare, e quando qualcuno parla ancora con le vecchie idee lo fa a bassa voce perché il governo non è d’accordo. Questo significa che se i mass media e il potere non tornano a seminare odio la cosa può essere sistemata. Prima della strage le stazioni radio seminavano odio e parlavano apertamente dicendo che i tutsi erano traditori del Paese e il Rwanda non poteva avere niente di bello finché c’erano i tutsi. Poi hanno convinto la gente con il concetto economico, dicendo che i tutsi avevano terreni e mucche e quindi i loro beni potevano finire nelle mani degli hutu. Poi hanno detto che chi uccideva un tutsi poteva sequestrare i suoi beni. Per questo la gente all’inizio non voleva uccidere i tutsi , però quando hanno capito che potevano guadagnarci si sono convinti a fare questa cosa. Poi c’era un’organizzazione per addestrare i giovani a combattere con le armi e questi giovani venivano nelle case e prendevano gli uomini per portarli ad uccidere e li minacciavano dicendo che se non uccidevano venivano uccisi perché potevano diventare un domani dei traditori. Questo è accaduto dopo nelle carceri; alcuni hanno vissuto un grande dolore perché si sentivano in colpa per aver ucciso una persona che non aveva fatto niente. Alcuni sono cambiati psicologicamente: non riuscivano a dormire e per questo alcuni hanno chiesto pubblicamente scusa; dicevano di riconoscere quello che avevano fatto, non chiedevano di uscire dal carcere ma di essere perdonati.

Così il governo ha detto che chi riusciva a chiedere scusa e a dire come sono andate le cose poteva essere perdonato e tornare a casa. C’era chi diceva di aver ucciso cinquanta, venti, trenta persone, ed era difficile trovare una pena per loro; però magari se qualcuno diceva piangendo alla sua vittima che poteva fargli quello che voleva ma di dargli il perdono, era difficile anche per la vittima perdonare, ma qualcuno c’è riuscito grazie anche al ruolo della Chiesa, che aiuta adesso a sistemare la società ruandese. Questa guerra veramente è stata un episodio di genocidio più feroce di altri perché in tre mesi sono state uccise un milione di persone. Immaginate, se fosse continuato ancora per due mesi tutti i ruandesi sarebbero stati uccisi.

redazione ha detto...

Una persona che semina odio non è che cerca solo di far odiare una minoranza; dopo quella minoranza ne prende di mira un’altra, magari la gente che abita vicino comincia ad essere vista come nemica. Per questo io voglio dire che queste cose continuano ad accadere nella storia umana: pensiamo al genocidio degli ebrei e alla Cambogia. Questi episodi sono delle lezioni per l’uomo, però non siamo riusciti a cambiare. Peccato che l’uomo con il suo privilegio di distinguere il male dal bene non riesce a sfruttare questa opportunità; la storia ci insegna sì, però non riesco a capire perché l’uomo non può correggersi ed evitare ciò che è accaduto; mi dispiace vedere che questi episodi continuano a tornare, per gli interessi di una persona che vuole separare gli uomini tra loro. L’etnia non c’entra: in Rwanda parliamo la stessa lingua, abbiamo la stessa religione, gli stessi valori eppure ci siamo ammazzati; questo significa che un giorno qualsiasi la parola etnia ha fatto finire l’umanità sulla terra se noi non riusciamo a combattere questa cosa e a dire che l’amore umano è l’unica soluzione. Oggi, quando vedo questa crisi, penso che l’origine di tutto sia la crisi della civiltà umana, l’amore che è negato: l’altro non è niente, oggi uno è contento di accogliere e ospitare solo chi è ricco. Il bisognoso che viene da lontano e non è all’altezza viene respinto e ricacciato. Peccato che si dica che fare del male ad un’altra persona è un fattore storico positivo; il mondo ha scelto di non dialogare e non avvicinarsi all’altro; questo significa che non abbiamo la capacità di dialogare e sentirci umani e fratelli su questa terra perché la terra è stata creata una e anche noi siamo uniti. Io voglio terminare ringraziandovi per essere venuti qua perché quando ho sentito il nome Genti di Pace ho pensato che questa è una cosa molto importante soprattutto oggi perché siamo di fronte ad una situazione di grande emergenza: oggi il mondo non ha bisogno in primo luogo di costruire cose tecnologiche, ma bisogna ancora seminare amore e costruire la civiltà, la convivenza e l’amore, sennò rischiamo di costruire una civiltà sulla sabbia.
Vi ringrazio molto in nome dei Rwandesi per questo tempo avete destinato per condividere il dolore che i Rwandesi in questo periodo stano provando ricordando i nostri innocenti massacrati nel genocidio per la crudelità e ignoranza dell'uomo verso il suo fratello!!
Grazie mille a tutti quanti!!