1° dicembre: Giornata Mondiale di Lotta all'Aids
DREAM è un programma ad approccio globale per curare l’AIDS in Africa avviato nel febbraio 2002 dalla Comunità di Sant'Egidio.
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Presentazione di Genti di Pace-j:
http://mondomisto.blogspot.com/2009/03/presentazione-di-genti-di-pace-j_15.html
2 commenti:
Il programma è figlio di un sogno. Il sogno di un approccio diverso all'AIDS e all'intero universo sanitario africano, un sogno libero dalle catene dell'afropessimismo e di quel minimalismo che molto spesso si applica all'Africa. DREAM è infatti innanzitutto un atteggiamento differente di fronte all'Africa. E' un'iniezione di fiducia e di speranza.
Fiducia e speranza che l'AIDS può essere combattuto, e proprio in Africa. Fiducia e speranza che milioni di bambini e di bambine - il futuro dell'Africa, ma anche del nostro pianeta - possano avere davanti a sé quella lunga vita cui noi vorremmo che ogni nostro figlio o figlia avesse diritto.
(http://dream.santegidio.org/)
Una storia dalla Tanzania
L'amicizia dà vita al futuro: il lungo viaggio di Hidaya dalla malattia alla speranza
Hidaya è una donna tanzaniana di circa trent'anni. Ma è anche una cara amica di tutti gli operatori DREAM di Arusha, un esempio di coraggio e di voglia di guarire per tanti pazienti del centro, una prova che l'amore e la speranza possono aprire al futuro ed essere più forti della malattia e della disperazione.
Hidaya ha conosciuto DREAM poco meno di due anni fa, quando l'AIDS aveva già iniziato a segnarle il volto con il sarcoma di Kaposi. Si era presentata al centro di Arusha in silenzio, accompagnata dalla madre, una donna che non l'avrebbe mai lasciata da sola in questo lungo periodo di cura.
La loro casa di fango e lamiera è nel quartiere di Ngarasero, poco fuori Arusha. E' il quartiere più vicino al centro DREAM, sulla strada verso l'aeroporto, il quartiere da cui proviene la maggior parte dei pazienti in cura con il Programma. Da alcuni di quei pazienti Hidaya e la madre avevano saputo della possibilità di una cura, si erano fatte coraggio ed erano venute.
Hidaya stava molto male. Il suo AIDS era ad uno stadio molto avanzato. Il sarcoma di Kaposi, unito alle altre malattie opportunistiche di cui soffriva, le aveva devastato il volto, le impediva di deglutire, le stava compromettendo la vista.
Il suo viso era l'immagine della furia orrenda dell'AIDS, della sua maledizione. Quando si posavano su di lei gli sguardi degli altri malati rendevano plasticamente l'idea dello stigma della malattia, il timore quasi fisico di essere contagiati.
Di fronte alla sua situazione si aveva l'impressione di un male davvero inesorabile, che si accaniva su una povera donna chiudendole ogni prospettiva di salvezza. Ci si sarebbe potuti ritenere vinti dalla grande forza di quel male. Ci si sarebbe potuti arrendere davanti all'apparente impossibilità di fare qualcosa.
Ma la presenza muta e sofferente di Hidaya al centro DREAM era una domanda che non si poteva né si voleva eludere. Bisognava essere tenaci e fantasiosi nell'amore. Bisognava essere pazienti nella difficoltà e fedeli nella speranza. Bisognava credere che il bene, che l'amicizia, le cure, potessero esprimere una forza più forte di quella del male. Potessero far indietreggiare il male.
Il problema principale era costituito dalla difficoltà di Hidaya a deglutire. Non solo assumeva le medicine a fatica (era quasi impossibile somministrarle farmaci in compresse), le era anche estremamente difficile mangiare. Era in uno stato di continua, profonda debolezza, perché non poteva nutrirsi come avrebbe dovuto.
Il primo passo è stato quello di cambiare i farmaci, di farle assumere gli antiretrovirali in sciroppi che si danno anche ai bambini (in quantità maggiori, ovviamente). Il secondo è stato quello di lavorare ad una dieta pensata appositamente per Hidaya, un regime alimentare possibile, che le garantisse una supplementazione nutrizionale adeguata e che le desse nuova forza.
Ma poi si trattava di affrontare il problema costituito da un sarcoma molto aggressivo, che minacciava di toccare anche i polmoni.
Purtroppo i suoi ricoveri in ospedale non avevano portato sino ad allora ad alcun risultato tangibile. La terapia era sempre la stessa: si faceva qualche radiografia, si puntava su qualche flebo. I medici erano tutti decisamente pessimisti sulla sua prognosi e suggerivano apertamente agli operatori DREAM che andavano a parlare con loro di non farla ricoverare più, tanto non c'era niente da fare.
Ma qualcosa da fare c'è sempre. Non ci si rassegna così alla perdita di un amico. DREAM è riuscito ad entrare in contatto con dei medici che lavoravano nell'ospedale di Moshi, una cittadina ad un centinaio di km da Arusha, e che erano disponibili ad intervenire. Innanzitutto bloccando l'avanzare della malattia con cicli di chemioterapia, e poi rimuovendo le formazioni cancerose dal viso di Hidaya con due operazioni chirurgiche.
Certo, anche lì le difficoltà non sono mancate. Il sarcoma aveva effettivamente raggiunto i polmoni. E, dopo le prime sedute di chemioterapia, i medici hanno dovuto interrompere per un certo periodo il trattamento, perché le condizioni di Hidaya, in particolare la sua anemia, non permettevano di procedere speditamente. Infine un'infezione all'orecchio si era propagata sino agli occhi impedendole di vedere.
Ma Hidaya voleva vivere. Una volontà grande, determinata. Che l'ha condotta a sopportare e a perseverare fino a quando non è stato infine possibile iniziare il trattamento chirurgico. La prima operazione, qualche tempo fa, è andata molto bene (i suoi occhi hanno ricominciato a vedere) e ci si aspetta che la prossima sia ancora più risolutiva.
Quel che ha colpito tutti, al centro DREAM, nella storia di una donna che ha vissuto e vive una condizione così difficile, così disperata, è stata proprio la sua voglia di continuare tenacemente a lottare contro il male.
E tuttavia anche Hidaya, a sua volta, deve essere rimasta colpita dalla dedizione e dalla tenacia degli operatori di DREAM. In lei forza e coraggio si sono alimentati sempre più, in maniera per molti versi sorprendente, non tanto o non solo perché le cose andassero meglio, ma perché vedeva crescere l'affetto che la circondava, perché per qualcuno era importante, perché il desiderio di tanti era di vederla stare bene.
Nell'amicizia e nella gratitudine che pian piano si sono andate costruendo con tutti gli operatori del centro di Arusha, Hidaya ha chiesto con sempre maggiore convinzione di essere aiutata. Nei suoi occhi e nelle sue parole la sofferenza ha lasciato via via sempre più spazio alla speranza della guarigione.
Alla disperazione di una vita che sembrava non poter durare più di tanto si sono sostituiti il desiderio e la certezza del futuro. L'amicizia e la speranza hanno in effetti generato il futuro, materialmente. Facendo sorgere dal nulla quei giorni e quei mesi, anche lontani, che ognuno di noi "sani" immagina naturalmente per sé.
All'inizio Hidaya non parlava mai del domani. A chi partiva diceva sempre che quella era l'ultima volta che ci si incontrava. Negli ultimi tempi, invece, ha iniziato a fissare appuntamenti anche a lunga scadenza, sia con gli amici che sarebbero tornati dopo quattro o cinque mesi, sia con il chirurgo che a gennaio dovrà operarla di nuovo per liberarle finalmente il volto dai segni della malattia.
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